I) L’art. 2113 c.c. stabilisce che Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti controversie individuali di lavoro non sono valide (comma1), le stesse sono impugnabili entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione (comma 2) con esclusione della conciliazione intervenuta ai sensi degli articoli 185, 410, 411, 412-ter e 412-quater del codice di procedura civile (conciliazioni sindacali) (comma 4).
E, tuttavia, le rinunzie e le transazioni concernenti controversie individuali di lavoro ivi comprese le conciliazioni sindacali, sono impugnabili anche oltre i sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione qualora siano nulle e/o invalide in quanto prive dei requisiti essenziali, che devono risultare, in maniera chiara, inequivocabile e con assoluta certezza, dal relativo verbale sottoscritto (C.C. 6391/1992; 5930/1998; 10963/2000).
“La natura transattiva di un accordo stipulato tra datore di lavoro e lavoratore può essere esclusa quando … oltre al dato formale della mancata esplicitazione dei presupposti del negozio transattivo, sia riscontrabile … una carenza assoluta degli elementi tipici del negozio stesso, quali la “res litigiosa”, le reciproche concessioni, la volontà di porre fine a una lite” (C.C. 20590/2017).
Tanto sul ritenuto che “Il negozio conciliativo ha il contenuto di una transazione e quindi di un negozio, con il quale le parti, per espressa definizione codicistica, pongono fine ad una lite già cominciata o potenziale, facendosi reciproche concessioni … Il (relativo) verbale è impugnabile, a norma dell’art. 1346 c.c., per mancanza degli elementi che rendono valido il contratto: la transazione in questi casi è nulla ai sensi dell’art. 1418 c.c.” (Tr. Roma, sez. lav., 25/06/2019, n. 6268).
II) Affinché una transazione/conciliazione sia valida ed efficace e quindi non impugnabile oltre i sei mesi:
1) Innanzitutto deve sussistere una lite reale da transigere.
Invero, se manca la res litigiosa, il negozio è privo di causa, e quindi nullo. “La transazione è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro” (art. 1965 c.c). Per la transazione, uno dei requisiti essenziali di validità è rappresentato dalla sussistenza di una lite reale da transigere e, quindi, di una pretesa che sia contrastata dalla controparte” (C.C. 20590/2017; 20780/ 2007).
La transazione, infatti, non deve costituire solo un “pretesto” per ottenere la rinuncia del lavoratore ad ogni domanda o diritto connesso al rapporto di lavoro.
Pertanto, nelle premesse del verbale, in cui viene trascritta la transazione/conciliazione, deve rinvenirsi la descrizione dettagliata della questione effettivamente controversa o controvertibile tra le parti (lavoratore e datore), pena la nullità della stessa e, quindi, la sua impugnabilità oltre i sei mesi ed antro i termini di decadenza e/o prescrizione del diritto.
2) L’accordo tra lavoratore e datore deve contenere lo scambio di reciproche concessioni su diritti determinati o determinabili.
In mancanza, la transazione è nulla e invalida perché priva di causa.
a) Ogni transazione deve concludersi con reciproche concessioni, nel senso che ciascuna parte deve rinunciare a qualcosa.
Vi è, infatti, una peculiare sinallagmaticità tra le prestazioni delle parti, che vengono stabilite le une in cambio delle altre. Invero “può essere riconosciuto valore di transazione solo ove l’accordo tra lavoratore e datore contenga lo scambio di reciproche concessioni, essenziale ad integrare il relativo schema negoziale” (C.C. 28448/2018), per cui: “Il verbale di conciliazione che è stato redatto senza avere per oggetto le rinunzie determinate, ossia le “reciproche concessioni” in cui si risolve il contratto transattivo ai sensi dell’art. 1965 c.c. è nullo” (Tr. Roma, sez. lav., 25/06/2019, n. 6268).
b) Con la precisazione che le reciproche concessioni devono riguardare diritti determinati o determinabili. Invero, la dichiarazione di rinuncia, anche nell’ambito di una transazione-conciliazione sindacale, non è valida se riferita in termini generici, assimilabili a clausole di stile, non sufficienti, ex se, a comprovare l’effettiva sussistenza di una volontà dispositiva dell’interessato nonchè la consapevolezza e il cosciente intento di abdicare o di transigere ben precisi diritti (C.C. 558/2021).
Ne consegue che, in presenza di una transazione o rinuncia avente ad oggetto un diritto indeterminato o indeterminabile, deve escludersi, ai fini della validità dell’atto di disposizione, che sussista una effettiva volontà e consapevolezza del lavoratore di privarsi dei propri diritti (C.C. 11536/ 2006; 12411/1999; 12374/1997; 10218/2008).
In sintesi: dall’atto devono evincersi la questione controversa oggetto della lite e le reciproche, specifiche e puntuali concessioni, di tal guisa che il lavoratore sia messo in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura (ex multis, C.C. 9006/2019). “Le dichiarazioni di non avere più nulla a pretendere nei confronti del datore di lavoro costituiscono mere dichiarazioni “di scienza”, non equiparabili a rinuncia o transazione, fatta salva la prova che il dipendente abbia voluto con la quietanza abdicare a specifici diritti puntualmente indicati. Una quietanza … concludendosi con una tipica e ancor più generica clausola di stile (“dichiarazione di volontà di rinunciare a qualsiasi pretesa in ordine alla cessazione del rapporto di lavoro”) non può avere il valore di una rinuncia o transazione” (Tr. Roma, sez. lav., 17/07/2020, n. 4649).
“Al fine di potere qualificare come transazione la dichiarazione liberatoria del lavoratore, contenuta nel verbale della conciliazione avvenuta in sede sindacale, è necessario non soltanto ravvisare nel testo, o aliunde, elementi che manifestino la chiara e piena consapevolezza del dichiarante di abdicare o transigere diritti determinati o oggettivamente determinabili, ma anche le reciproche concessioni tra le parti, escludendosi l’applicazione dell’art. 2113, comma 4, c.c., qualora, invece, si sia in presenza di una mera quietanza, recte dichiarazione di scienza” (C.C. 28448/2018).
III) Concludendo: l’insussistenza di una lite reale da transigere, l’assenza di reciproche conessioni nonchè la indeterminatezza o l’indeterminabilità dell’oggetto della conciliazione legittima il lavoratore ad agire in giudizio a tutela di quei diritti che non siano stati specificamente individuati o non siano individuabili come oggetto della rinuncia o della transazione). Invero se manca “una lite reale da transigere, non si può parlare di transazione; un atto di tale specie, perciò, anche se formalizzato presso l’UPLMO, è nullo e liberamente impugnabile dal lavoratore che vi ha partecipato” (C.C. 3700/1984). Infatti: “La necessità dell’esatta determinazione o, quanto meno, determinabilità dell’oggetto della rinunzia costituisce condizione di validità di qualsiasi manifestazione negoziale di volontà abdicativa, ancorché intervenuta – trattandosi di transazione su pretese del lavoratore scaturenti da un pregresso rapporto di lavoro – in sede di conciliazione davanti all’apposita commissione presso l’Ufficio provinciale del lavoro. Ne consegue che detta transazione non preclude al lavoratore l’azione giudiziaria a tutela di quei diritti che non siano stati specificamente individuati (o non siano individuabili) come oggetto della rinuncia effettuata a fini transattivi” (C.C. 10056/1991).
Controversie individuali di lavoro – Impugnabilità delle rinunce e transazioni oltre sei mesi
